STORIE D’ITALIA_ CAPITOLO II_ I BUTCHERs RACCONTANO
Benvenuto Marzo.
Con oggi inizia un nuovo mese carnivoro da raccontare e partiamo proprio dalla rubrica ‘Storie d’Italia: i Butchers raccontano’.
Siamo partiti dalla mia Toscana, terra di casa. Lì abbiamo conosciuto la bellissima storia carnivora del collega Sauro di Pistoia. Oggi scendiamo un po’ più giù al confine con il LAZIO, sicuramente regione tra le più ricche di storia e di ritrovamenti importanti non ultima, certamente, la capitale con le sue bellezze invidiate dal mondo intero, senza nulla togliere al resto del nostro bel paese.
FACCIAMO IL PUNTO
Patire dal passato è indispensabile per comprendere chi siamo oggi. Impresa ardua però quella di riassumere in poche parole la storia di una regione. Specialmente se si parla di Roma e dei romani.
Tutto partì circa 60 mila anni fa, quando il Lazio cominciò ad essere popolato. Nel VII secolo a.C. le aree più settentrionali erano abitate da Etruschi e Sabini, mentre le zone meridionali erano colonizzate da Latini, Volsci ed Ernici.
Ma la storia della regione che si affaccia sul Tirreno è legata a quella di Roma e a quella della Chiesa, e troppo spesso la fama del capoluogo ha oscurato le bellezze naturali e storiche che la regione è in grado di offrire.
Con l’ascesa di Roma le popolazioni latine e gli Etruschi vennero sottomessi, e la città divenne il centro della regione. Grandi strade e acquedotti si diramavano a raggera dalla capitale, (non per nulla ‘Tutte le strade portano a Roma’!) mentre splendide ville costruite da ricchi patrizi punteggiavano la campagna circostante.
L‘età imperiale è quella che maggiormente ha lasciato forti impronte: a Ostia, le ville sulle vie Flaminia e Predestina, sul litorale di Anzio e sulla Appia.
Nell’alto medioevo queste terre divennero la culla del monachesimo occidentale: le ricche famiglie papali entrarono in competizione per la costruzione di lussuosi palazzi e giardini, commissionandoli ai maggiori architetti dell’epoca.
In questo periodo fiorirono dei centri minori sedi monastiche come Subiaco e Farfa, Casamari e Fossanova. Ma oltre a tutte le testimonianze del ricco passato il Lazio offre splendidi scenari naturali, il Terminillo, i laghi vulcanici di Bolsena e Bracciano, i colli Albani e la costa frastagliata e rocciosa tra il Circeo e Gaeta. Insomma, il Lazio non è solo Roma. (fonte turislazio.it)
ENOGASTRONOMIA LAZIALE
Ciò per cui siamo appassionati qui e ben rinomati in tutto il mondo è il buon cibo, la buona tavola e le mille tradizioni culinarie che ci portiamo dietro negli anni.
La cucina laziale è rappresentata in gran parte da quella romana nella quale sono convogliate tutte le specialità delle tradizioni culinarie della regione. Perdute le glorie dell’Antica Roma dove era possibile mangiare qualunque prelibatezza del mondo civilizzato di allora, quella che ne deriva è una cucina che ha perso in gran parte il suo filone aristocratico (famosa eccezione il timballo di Bonifacio VIII). Nella gastronomia romana arrivata a noi infatti hanno solidamente prevalso tre componenti popolaresche:
1) ebraica (detta “giudea”): la più raffinata, ingegnosa e colta, cui si devono celebri piatti come i “carciofi alla giudia” o “alici con l’invidia”;
2) burina: di derivazione abruzzese, che ha portato fra l’altro i “bucatini all’amatriciana”, la “pasta alla carbonara”, l’abbacchio e in genere i piatti di carne di maiale;
3) macellara: nata intorno ai mattatoi con protagonista il “quinto” quarto, cioè interiora, zampe, guancia, alla quale appartengono i “rigatoni con la paiata” o la “coda alla vaccinara”.
Ricette dell’antica gastronomia romana è possibile rintracciarle anche nella letteratura storica. (FONTE https://www.taccuinigastrosofici.it/) Maestro Martino (XV sec.) ci presenta una ricetta che può ricordare i famosi saltimbocca di antica tradizione: “Per fare coppiette al modo romano” (pezzetti di carne che rimangono attaccati l’uno all’altro), e Messisbugo (XVI sec.) propone “A fare dieci piatti di maccheroni romaneschi” e “cavoli a la romanesca” (cavoli rifatti con lardo e brodo grasso). Inoltrandoci nel tardo Rinascimento incontriamo lo Scappi con “Per far polpettoni alla romanesca di lombolo di bove o di vaccina”. Anche Francesco Leonardi (XVIII sec.) fra le tante squisitezze e raffinatezze proposte nel suo libro, per la cucina romana fornisce la ricetta della “Trippa di manzo alla romana” che per quanto elaborata rimane sempre un alimento della cucina povera.
Possiamo allora pensare che la gustosa semplicità della cucina popolare della festa ha in parte coinciso con la cucina quotidiana papalina e aristocratica e da questo legame nacquero proverbi e adagi popolari: «Chi se vò imparà a magnà, da li preti bisogna che va». Nella seconda metà del ‘900 il cinema italiano ha poi esportato la cucina popolaresca imponendola come culto ‘turistico’ al pari del Colosseo o della Cattedrale di San Pietro.
Potremmo trascorrere giornate intere a parlare di ricette del passato. Di certo, quello che ci fa onore è quello di sapere che una delle civiltà più importanti del mondo proviene da un’influenza del mondo macellaresco, tra le tre, non potevamo che gioire nel sapere che una delle componenti popolari romane, erano proprio quella ‘macellare‘. Ecco che qui c’è scattato un molla in testa. Perché non interpellare un caro amico di Maremma che Ciccia, laziale inside, anzi di Genazzanese verace, per farci raccontare una delle sue storie di famiglia? Pensate che la sua è una discendenza di genuini macellatori laziali.
I RACCONTI DI CIANI
Bussare la porta a Gaetano Ciani è sempre un piacere. La sua ospitalità non ha eguali. Spontanea, casereccia, godereccia, fatta di sani principi fondati sul valore della famiglia (e chi lo conosce può solo che confermare il tutto). Da nonna Domenica, detta Mimma, a nonno Gaetano fino ad arrivare alle giovani generazioni che boh, forse anche loro un giorno intraprenderanno la strada dei genitori che oggi portano avanti con enorme passione la storia di una vita. E così racconta:
ORA però prenditi il tuo momento, fai un bel respiro e prova a farti trasportare nei ricordi. Immagina suoni, odori… con le sue parole vogliamo far vivere ricordi di un tempo.
“Questo è il mattatoio Comunale di Olevano Romano anzi più esattamente quello che resta. I miei familiari ne sono stati innovativi gestori sino a che questo luogo non è stato inglobato dall’ espansione del tessuto urbano. Che poi si sa diventa indecoroso un posto così, tra le case comperate con trent’anni di mutuo, e non tanto per l’architettura o la funzione ma per i miasmi che – potete credermi – non evocano affatto la Provenza. è questo un luogo della mia infanzia, ma anche della mia adolescenza”.
“Con Antoniomaria non è tanto facile cavarsela e ora sono qui ad onorare una vecchia promessa di cui ad ogni occasione mi chiedeva conto. Anno più, anno meno, probabilmente fanno 25 che non rivedo questi luoghi. La sala macellazione, il locale tripperia, la sala per gli agnelli, le bilance, la cella frigo per le mezzene, portano i segni del tempo e della devastazione e come se non bastasse del vandalismo, quasi a rendere ancora più brutto un posto che lo era già pure da nuovo. Ho trascorso molte vacanze estive nella tripperia dove tra i molti stomaci, il più forte doveva essere il mio specie quando, tra la calce ed il fieno appena digerito, comparivano parassiti rossi dalle sembianze di chicchi di melograno.
“Il dott. Buono a ragione, mi cacciava sempre, mal tollerava la presenza di un bambino tra quei luoghi, ma è forse per questo che ho sviluppato degli anticorpi prodigiosi. Talvolta, quasi come fosse una promozione, prendevo il coltello e aiutavo a scuoiare le parti più facili gli addetti alla macellazione Italo e Marcello. Marcello era di una bruttezza leggendaria chissà se è ancora vivo. Era di Tivoli. Con Italo ci incontriamo spesso e si finisce sempre a raccontarci di quei tempi andati, di quelle fatiche immani a tirar giù bovini che non ne volevano sapere di fare quella fine li, dei cumuli delle pelli di agnello a Natale, il freddo e i cappuccini nelle bottigliette di yoga, la carne calda, Sergio e il suo Fiat Lupetto che neanche aveva il frigo. Il sonno tanto al mattino, le interminabili sessioni di macellazione durante le feste, le dispute con quei levantini dei macellai ed io li bambino che ancora oggi mi chiedo come ho fatto a scampare a quello che doveva essere un destino di abbrutimento”.
“Posso dirvi con certezza che io di tutto quel sangue, di tutta quella merda e di quei pagliericci non provo alcuna nostalgia. Antoniomaria si aggira beato tra i rifiuti, ed è mezza ora che mi punta addosso il mitragliatore delle domande, alzo le mani mi arrendo e lo prego di mirare bene al centro della fronte come si faceva un tempo qui, con un ultima domanda: “Papà ti piaceva quando lavoravi in questo posto?”… “No figlio …per niente“.
CHE DICI?
Un discorso sconclusionato direte voi. Forse non per tutti. LEGGERE queste parole mi hanno fatto rivivere i momenti vissuti dal giovane Gaetano, oggi alla guida dell’azienda insieme alla famiglia. Emozioni, belle o brutte. Ho voluto riportare di proposito queste sue frasi cosi, dette di getto, nel ripercorrere il valore di quella storia che, anche se non del tutto piacevole, hanno scritto la nostra STORIA. E se siamo ancora qui a parlarne, ad emozionarci… allora forse significa che siamo convintamente innamorati di ciò che sappiamo fare meglio.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!