MA SENZA FRIGO, COME FAREMMO?
TECNICHE ‘D’ANTAN’ PER CONSERVARE I CIBI
Scorsa settimana abbiamo parlato del buon frigorifero, elettrodomestico oramai indispensabile nella quotidianità.
MA I NOSTI ANTENATI COME CONSERVAVANO IL CIBO?
Oggi per tutti l’unico modo di conservare i nostri alimenti è quello di metterli in frigorifero o nel congelatore. Grazie alle basse temperature, infatti, ogni alimento precedentemente trattato a regola subirà un processo che fermerà ogni tipo di deperimento.
Ci siamo chiesti però, visto che siamo diventati un po’ catastrofici – data forse la pandemia – se andasse via la corrente elettrica, e quindi ogni elettrodomestico risultasse inefficace, come potremmo conservare altrimenti i nostri alimenti?
Per rispondere a questa domanda basta andare a scavare nel passato quando avere corrente elettrica non c’era o non era a disposizione, o era un bene di lusso o, ancora meglio, possedere un frigorifero era solo per ricchi.
Per conservare gli alimenti, non sempre disponibili freschi come carne e pesce, ecco che i nostri predecessori utilizzavano tecniche figlie sicuramente dell’ingegno umano, a volte di ‘errori’ ma soprattutto della povertà .
I nostri antenati furono molto creativi nel trovare soluzioni ai principali problemi della conservazione degli alimenti. Per prima cosa capirono che c’erano alcuni fattori climatici che potevano aiutare o giocare brutti scherzi ai cibi:
- Umidità: i batteri hanno bisogno d’acqua per sopravvivere. Rimuovendo l’acqua si rallenta la proliferazione di batteri nocivi;
- Ossigeno: la maggior parte dei batteri e delle muffe che attaccano gli alimenti hanno bisogno di ossigeno per crescere. Uno strato protettivo a tenuta d’aria è in grado di impedire l’infiltrazione di microrganismi dannosi e di limitare la crescita di quelli già presenti negli alimenti;
- Temperatura: i batteri e le muffe preferiscono un ambiente temperato: se è troppo freddo riducono la loro attività, il calore eccessivo invece tende ad ucciderli;
- Acidità: molti batteri preferiscono un ph neutrale. Un ambiente troppo acido o troppo basico inibisce la proliferazione di batteri che favoriscono la decomposizione.
Modificare o cercare situazioni favorevoli era la soluzione primaria ai problemi. Studiato l’ambiente, ecco che, a seconda del risultato che volevano ottenere, sceglievano la tecnica più giusta.
CIBO AFFUMICATO O ESSICCATO
L’ affumicatura e l’essiccamento sono probabilmente le tecniche più antiche per conservare cibo facilmente deperibile, come le proteine di origine animale.
Le prime forme di affumicamento ed essiccamento all’aria risalgono ad almeno 14.000 anni fa; ben presto ci si accorse che la carne esposta al fumo del focolare tendeva a conservarsi molto più a lungo di quella fresca, cotta o semplicemente essiccata all’aria: il fumo deposita sulla carne un numero di sottoprodotti della combustione che formano un guscio protettivo in grado di respingere la maggior parte dei batteri nocivi.
L’affumicatura è un processo che richiede generalmente 24-48 ore per essere portato a termine. La qualità del legno utilizzato per produrre fumo è fondamentale per il sapore finale: quercia, faggio, ontano, acero, melo e ciliegio sono generalmente legname di prima scelta che impartisce sapori caratteristici agli alimenti (soprattutto alla carne).
L’essiccamento di frutta, carne, pesce e verdure praticata secondo il metodo primitivo utilizza soltanto la luce solare e il vento: il calore generato e una costante brezza secca che scorre tra gli alimenti da conservare favorisce l’espulsione dell’acqua in eccesso e rallenta la decomposizione e la moltiplicazione dei microrganismi nocivi.
SALAGIONE DEGLI ALIMENTI
La salagione può essere efficace quanto l’affumicamento nella conservazione del cibo e spesso costituisce il passo preliminare per un’affumicatura di successo.
Non appena fu elaborato un sistema per l’estrazione dall’acqua di mare o dai suoi giacimenti naturali, il sale si dimostrò incredibilmente efficace nel combattere la proliferazione di batteri e funghi dannosi presenti negli alimenti, eliminando la maggior parte dell’acqua presente nel cibo.
Il sale (1 kg di sale per 5 kg di carne/pesce/verdura) crea un ambiente fortemente alcalino in cui ben pochi funghi, muffe o batteri possono sopravvivere: ogni cellula vivente subisce un veloce processo di disidratazione fino a morire per carenza d’acqua.
Molte fonti storiche provenienti dal bacino del Mediterraneo (https://www.vitantica.net/2018/04/20/tempo-attraversare-mediterraneo-antica-nave-vela/) testimoniano l’importanza della salagione della carne o del pesce: nella Grecia antica, ad esempio, si preparavano i tarichos (chiamati salsamentum dai Romani), carne o pesce conservati sotto diversi strati di sale o di grasso.
ZUCCHERO PER CONSERVARE IL CIBO
Per le civiltà che avevano la fortuna di avere a disposizione sostanze zuccherine come il miele, o altre piante da estrazione di melassa o sciroppi, forse per errore o per tentativi, inventarono la conservazione sotto zucchero per la conservazione di frutta e carne.
Il procedimento prevede una prima fase di essiccazione del cibo per liberarlo dall’acqua in eccesso, seguita dall’immersione in zucchero grezzo a cristalli, sciroppo o miele, allo scopo di creare un’ambiente ostile alla proliferazione di batteri .
Il rischio di questo metodo di conservazione è la capacità dello zucchero di attrarre umidità e fermentare: non appena raggiunto un certo grado di umidità, i lieviti naturalmente presenti nell’ambiente iniziano a far fermentare gli zuccheri trasformandoli in alcool e anidride carbonica; anche se la fermentazione in alcuni casi contribuisce alla conservazione, potrebbe creare aromi o sapori non gradevoli.
SALAMOIA O ACETO
L’esatta origine di questo tipo di conservazione degli alimenti non è chiara, ma sappiamo che ben 4.500 anni fa i popoli mesopotamici utilizzavano quotidianamente soluzioni di sale marino per conservare cibi fuori stagione o durante lunghi periodi di viaggio, come la carne in salamoia.
Elencare tutti i metodi per la salamoia o la conservazione sotto aceto richiederebbe un articolo a parte, ma il principio di base è sempre quello della prevenzione della crescita batterica: il sale o l’aceto creano un ambiente salino o acido in cui i batteri e le muffe non sono in grado di proliferare, consentendo la conservazione del cibo anche per mesi.
FERMENTAZIONE DEL CIBO
Alcuni metodi di conservazione invece di combattere ogni microrganismo immaginabile sfruttano la loro presenza favorendo la crescita da alcuni batteri o muffe non nocivi per trasformare il cibo e conservarlo più a lungo, oltre che fornirgli un sapore differente talvolta più gradevole.
Il funazushi, ad esempio, è un metodo giapponese per la conservazione del pesce che sfrutta la fermentazione del riso e la decomposizione delle proteine animali per conservare a lungo il cibo: per produrre il funazushi occorrono ben 8 anni e può conservarsi per altrettanto tempo in condizioni ideali.
La fermentazione è sostanzialmente la conversione di amidi e zuccheri in alcool da parte di alcuni agenti microbici: è un procedimento che serve a tenere a bada i batteri nocivi e a trasformare le proprietà organolettiche degli alimenti.
Tra noi macellai c’è un King della fermentazione che, di grazia e se ne avrà voglia, ci racconterà in una intervista i suoi studi e le sue prove nel mondo della ‘fermentazione dei cibi’: Mauro, ti lanciamo la sfida!
SEPOLTURA NEL TERRENO
Invece uno dei metodi più semplici e rapidi, forse anche il più antico, è quello di mettere i cibi sotto la terra. Forse, studiando proprio il comportamento degli animali che l’uomo ha avuto l’idea di provare questa tecnica.
La sepoltura di alimenti può contribuire a prolungare la loro vita grazie a diversi fattori in gioco: assenza di luce e di ossigeno, temperatura fresca e quasi costante tutto l’anno, livelli di acidità del suolo tali da prevenire la proliferazione di batteri o muffe.
Se combinata ad altri metodi come la salatura o la fermentazione, questa tecnica consente di preservare gli alimenti per mesi interi; se il terreno tende a ghiacciarsi durante le stagioni più fredde, la fossa in cui è stato deposto il cibo agirà da refrigeratore e aumenterà ulteriormente la vita dei prodotti conservati al suo interno.
Molti tuberi sono per natura resistenti alla decomposizione e si mantengono in ottimo stato in condizioni di oscurità sotto uno strato di terreno: il cavolo veniva tradizionalmente sepolto durante l’autunno per essere recuperato durante l’inverno o la primavera.
Per conservare la carne invece si preferiva essiccarla depositandola su un letto di ceneri in grado di assorbire l’umidità e rallentare la decomposizione grazie anche alla scarsa presenza di ossigeno.
La sepoltura di sottoprodotti del latte o di grassi animali contribuì per millenni alla realizzazione di quello che viene definito burro di palude.
Una volta interrati in una torbiera all’interno di un contenitore di legno o di vescica animale, gli alimenti si decomponevano molto più lentamente grazie al particolare ecosistema della torbiera: basse temperature, poco ossigeno ed elevata acidità prevengono la crescita batterica con un efficacia simile a quella dei freezer moderni.
METODO DELLA NONNA
LO SAPEVI CHE: La carne può restare fuori dal frigo per tre giorni se conservata in una pentola antiossidante con acqua e aceto di vino rosso, coperta con un coperchio e con un peso sopra in modo che non entri aria? Oltre che ancora fresca, una volta tolta dalla pentola, la carne sarà anche molto saporita.
_________ CURIOSITA’_________
IRLANDA, LA TORBIERA RESTITUISCE UN BLOCCO DI “BURRO” DI 2000 ANNI FA
Si legge dal Blog di © Elena Percivaldi – © Perceval Archeostoria – (All rights reserved) – DUBLINO – “Un grande agglomerato di grasso a uso alimentare (probabilmente burro) che potrebbe risalire a 2.000 anni fa è stato trovato durante alcuni lavori nella torbiera di Emlagh, nella Contea di Meath, Irlanda. Il blocco, del peso di circa 10 Kg, ha consistenza cerosa e odore molto simile a quello del formaggio stagionato e, secondo gli esperti dell’Irish Antiquities Division del National Museum of Ireland che lo hanno preso in custodia, era stato gettato nella torbiera (giaceva a una profondità di circa 4 metri) per essere conservato e usato in un secondo momento, oppure come dono agli dei per garantirsi prosperità. Il blocco sarà sottoposto all’esame del radiocarbonio in modo da stabilire con certezza la datazione. Non è la prima volta che in Irlanda vengono fatti ritrovamenti di “bog butter”, ossia burro di palude: si tratta di adipocere di origine a volte animale (grasso, lardo e simili), altre ricavate dalla lavorazione del latte. Di solito sono inseriti in contenitori di legno o recipienti di pelle: tra gli ultimi casi, il blocco di 50 Kg (recipiente di legno compreso) riemerso nel 2011 a Tullamore (Co. Offaly). Le torbiere, grazie alla combinazione tra freddo, presenza di microrganismi, acidità dell’acqua e mancanza di ossigeno, sono ambienti molto favorevoli alla conservazione dei materiali organici, come dimostrano anche i molti e celebri “bog bodies”, letteralmente “mummie di palude”, sia di persone che di animali, riemersi a distanza di secoli o addirittura millenni in perfette condizioni di conservazione in tutto il Nord Europa.
L’abitudine di collocare il burro (e i grassi in genere) nelle torbiere risale al II-III secolo d.C. (o forse addirittura più indietro, all’Età del Ferro); fonti del XVII secolo che riportano alcune usanze alimentari in Irlanda descrivono l’abitudine di collocare il burro in ceste dopo averlo mescolato a una specie di aglio e poi seppellirlo nelle paludi per farlo “stagionare” in modo da averlo pronto, così aromatizzato, per la Quaresima. Questa testimonianza suggerisce che la collocazione del burro nelle torbiere avvenisse per assicurarsi un certo tipo di prodotto in un determinato momento dell’anno: la stagionatura era necessaria per permettere all’aroma di penetrare nel grasso in maniera uniforme mentre le particolari condizioni microclimatiche delle paludi – bassa temperatura, assenza di aria e proprietà asettiche della torba- avrebbero garantito la conservazione e reso impossibile la formazione delle muffe.
Andy Halpin, aiuto-conservatore della Irish Antiquities Division nel Museo irlandese, ha spiegato che il ritrovamento è particolarmente significativo in quanto è avvenuto nell’area di Drakerath, zona di confine tra tre diversi regni e quindi una sorta di “terra di nessuno”. E alla richiesta se il burro fosse commestibile o no, la riposta è stata laconica: “Teoricamente sì – ha affermato Halpin -, ma non direi che sia il caso di assaggiarlo”.
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Spero che il nostro viaggio insieme nel vecchio mondo della conservazione dei cibi vi sia piaciuta. Sicuramente non ne abbiamo elencati tutti e nemmeno gli abbiamo dedicato tutto lo spazio necessario per raccontarveli al meglio. Se conosci altri metodi o vuoi raccontare qualche prova da te effettuato o, semplicemente, vuoi spiegare al meglio qualche tecnica, scrivi in redazione a info@andrealaganga.it . Metti la tua firma su MaremmaCheCiccia. Ti aspetto! Parola del Butcher!